Scalo lungo a Montréal. Cosa fare in città e cosa non fare in aeroporto

Vieux-Port de Montreal e Grande Roue — Canada

«Svuoti lo zaino».
«L’ho già svuotato due volte, anche davanti al suo collega. Il passaporto non c’è».
«Svuoti lo zaino», educatamente, ma senza margine di negoziazione.
Avrei voluto passare in Canada mezza giornata o poco più.
A questo punto, credo che il mio soggiorno potrebbe prolungarsi.

AirCanada - Montréal
Caffè. Il grande protagonista di questo scalo lungo a Montréal ☕️🇨🇦

Atterro a Montréal in piena notte, dopo un volo di tre ore e mezza da Varadero, Cuba.
Non dovrò prendere il mio backpack. Il dipendente AirCanada a cui l’ho affidato mi ha garantito che lo troverò direttamente a Roma. Meglio, un pensiero in meno.
Mi siedo su una poltroncina nell’ampia sala del ritiro bagagli e, dopo tre settimane passate con il telefono totalmente offline, accedo al WiFi gratuito dell’aeroporto.
Arrivano centinaia, se non migliaia di notifiche.
Progetto di passar qui la notte, fino all’alba, per poi uscire e fare un giro in città. Ho scelto appositamente un volo nel tardo pomeriggio.

Si fanno più o meno le tre di notte, quando un gentile agente di origine asiatica si avvicina a me, comunicandomi pacatamente che è necessario lasciare l’area.
Sto varcando l’uscita e vengo fermato da una robusta poliziotta, che mi si para davanti.
«Come mai non ha un bagaglio?».
«Sono qui solo per uno scalo. Lo ritroverò direttamente a Roma».
«Nessun bagaglio può restar qui di notte, per motivi di sicurezza».
«La ringrazio, ma il dipendente AirCanada di Varadero mi ha detto che non sarà necessario ritirarlo qui», ed in effetti la fascetta adesiva posta sul backpack riportava “VRA – FCO”, il codice dell’aeroporto di Fiumicino.
La poliziotta ascolta attentamente, per poi chiamare il collega asiatico e chiedergli di farmi fare un giro tra i nastri e per la sala.
Ed aveva ragione: abbandonato lì, c’è il mio bagaglio. Lo catturo rapidamente, con profonda gratitudine verso chi, nonostante l’ora tarda, non rinuncia a lavorar sodo. Avrebbero entrambi potuto fregarsene e lasciarmi andar via a mani vuote, è chiaro.
Ringrazio sentitamente e vado.

Si palesa un secondo problema, a questo punto: dove passerò la notte?
L’ambiente è ormai silenzioso ed incontrare altri esseri umani diventa un’esperienza sempre più rara.
Vorrei semplicemente sopravvivere fino alle sei di mattina e, se possibile, evitare di dormire: finirei per giocarmi il giro a Montréal, a cui tengo molto, e passerei le nove ore di volo per Roma costantemente sveglio, già lo so.
La strategia, ormai consolidata da numerose esperienze analoghe, è arrivare stremato sulla poltrona in aereo.
L’insegna del Marriott In-Terminal Hotel — smartphone alla mano, la tariffa a notte è di quasi 250 €, e se tocco il letto non mi rialzo prima di dopodomani — mi fa venire in mente che potrei accomodarmi sul bel divanetto a pian terreno, tanto più che la reception si trova al piano superiore.
Il Marriott è l’unico albergo ad esser raggiungibile senza uscire dall’aerostazione e, se avessi esigenze normali, rappresenterebbe senz’altro la scelta più comoda.
Il dado è tratto: rimango nella hall e, smaltendo messaggi, mail e notifiche, si fanno rapidamente le cinque e mezza.

Aeroporto Montreal
Lavo i denti nel bagno deserto dell’aeroporto di Montréal-Pierre Elliott Trudeau, ore 6 del mattino 🚻

Mi alzo, vado al bar per iniziare la giornata con cookie e cappuccino, stanco morto — in effetti, sono sveglio da quasi ventiquattr’ore ed ancora sento sulla pelle il sole preso in spiaggia a Varadero.
Lavo i denti e trovo il deposito bagagli, nei pressi dell’uscita.
Pago con carta i 12 dollari canadesi (o CAD, o ancora C$) — meno di 8 € — per lasciare il mio backpack e sono pronto per un po’ di avventura.
Ho già avuto un assaggio di Canada qualche settimana fa, nell’anglofona Toronto, capoluogo dell’Ontario. La distanza in linea d’aria non è siderale — circa cinquecento chilometri, che nel secondo paese più esteso al mondo potrei etichettare come due passi — ma ora son finito in Québec, nel Canada Francese.

Sono le 7 del mattino e c’è già un bel sole, ma l’aria è decisamente fresca, pur essendo agosto.
Salgo sul pullman6,50 €, pagati alla biglietteria automatica — e cerco di non cadere in coma, nei 40 minuti di tragitto che mi separano dal centro città.
A bordo non c’è nessuno e l’autista, facendo due chiacchiere, mi suggerisce di scendere di fronte al portale d’entrata Nord di China Town: rosso, con motivi e scritte cinesi lungo tutta la superficie e due grandi leoni di pietra a far da guardia. Spicca come un cactus nel deserto.
Accanto, un enorme murales colorato, che raffigura una giovane donna dagli occhi a mandorla con trucco ed abiti tradizionali, intenta a salutare. È un’opera particolarmente celebre, realizzata da Gene Pendon e Bryan Beyung, due famosi street artist locali.
Sarà semplice da individuare, al momento del rientro — non guasta mai.
L’autista, oltremodo premuroso, mi indica il punto esatto dove aspettare il pullman per tornare in aeroporto — il negozio Davidson Audio/Video, con un bel logo verde lime su sfondo nero, che imprimo nella mia mente — e mi lascia con un avvertimento: «Rientra almeno 4 ore prima del decollo. Potrebbe esserci molto traffico», per poi chiudere le porte del bus e continuare la corsa.

Montréal, Canada — China Town — Boulevard Saint-Laurent
Il portale d’ingresso di China Town, lungo Boulevard Saint-Laurent ⛩🇨🇳🇨🇦

Passo sotto al portale ed inizio a camminare.
La via — Boulevard Saint-Laurent, che qui chiamano the Main, ovvero la strada principale — è lunga, costellata di negozietti cinesi da ambo i lati. Chiusi, naturalmente: non sono neanche le otto del mattino.
La felpa mi ripara dal freddo, ma non dal sonno: mi rintano in una caffetteria e rimango lì per tre quarti d’ora. Se non avessi gli occhi aperti da un giorno intero, direi che mi godo il risveglio.
Affogo la testa in una damigiana di caffè americano e smanetto con il telefono, aggiornandomi un po’ su cosa sia successo nel mondo dall’ultima volta in cui ho avuto modo di leggere un articolo o guardare un notiziario. Pubblico un’immagine su Instagram, ritocco qualche foto tra le tante scattate a Cuba, ripensando al micidiale sbalzo di temperatura in cui sto per tuffarmi nuovamente.

Mi alzo e, salutando la cassiera, torno in strada, prima che possa accasciarmi sul tavolo.
Questi quindici gradi mi pungono la pelle, tenendomi vivo ed attivo, mentre mi dirigo verso il primo obiettivo della giornata: la Basilica di Notre-Dame, conclusa nel 1829 ed inserita nella splendida cornice del centro storico, che prende il nome di Vieux-Montréal.
Lo stile neogotico della facciata cattura immediatamente l’occhio, come un invito ad entrare ed ammirare gli interni policromi, la volta stellata su sfondo blu notte ed il magnifico organo, che conta più di novemila canne.
Accoglie quasi un milione di visitatori l’anno e vale senz’altro i 10 C$ — circa 6,5 € — spesi per entrare.
La basilica apre alle 8 in punto per i visitatori, e trovarmi qui poco dopo l’orario iniziale d’ingresso mi permette di godermi ogni dettaglio senza turisti tra i piedi.

Notre-Dame de Montréal, Canada — Volta
Un dettaglio della volta della basilica di Notre-Dame de Montréal, con le stelle dorate su sfondo blu notte 🌌

Uscito da qui, vengo catapultato nell’ottocentesca Place d’Armes, recentemente restaurata.
Tra le tante attrazioni, in cui spicca il Maisonneuve Monument — dedicato al fondatore della città — a catturare la mia attenzione sono le curiose e sarcastiche statue in bronzo dell’artista Marc-André J. Fortier, originario di Montréal, che animano gli angoli della piazza.
Grattacieli ed edifici art déco, tra i quali c’è anche la sede della Bank of Montréal, completano il quadro.

Place d’Armes, Montreal — Canada - GoPro

Saluto le statue e, in cinque minuti scarsi di camminata, sono immerso in una parte della città che, più che in Nord America, mi riporta dritto in Europa, per la differente architettura ed il calore delle sue stradine pedonali.
Sono all’incrocio tra l’infinita Boulevard Saint-Laurentthe Main, per l’appunto, che con i suoi undici chilometri taglia la città da Nord-Ovest a Sud-Est — e Rue Saint-Paul. Il fiume St. Lawrence è davvero a due passi, in questo angolo di Montréal dove il mattone domina rispetto a vetro, metallo e cemento delle aree più moderne.
Tra pub, fiorai e piccoli negozi, mi ritrovo a bere una Coca Zero in Place Jacques-Cartier, che si affaccia sul porto storico, il Vieux-Port, per poi infilarmi comodamente nello storico Marché Bonsecours, il mercato pubblico di Montréal, che si staglia con la sua imponente cupola in stile neoclassico su tutti gli altri edifici di Rue Saint-Paul Est.
Compro una serie infinita di bottigliette in vetro a forma di foglia d’acero, piene di sciroppo fino all’orlo, per poi tornare all’entrata della struttura e godermi la vista sulla Grande Roue, la ruota panoramica, ora di fronte a me.

Riconosciuto come uno dei dieci edifici storici più belli del Canada, il Marché Bonsecours è un vivace mercato che mette in mostra artisti, designer e artigiani del Québec.

Montréal — Sito ufficiale

Attraverso la strada per far due passi nel tranquillo Vieux-Port, godendomi con tranquillità questa pace surreale. Pochi passanti, mentre qualche food truck inizia timidamente ad aprire, ed un leggero venticello a darmi sollievo mentre il sole, ormai alto nel cielo, inizia a farmi rimpiangere le temperature autunnali della prima mattina.
Orbito attorno a questi camioncini che propongono ogni sorta di street food, dai classici ma sempre attuali hamburger ed hot-dog fino ai più fantasiosi biscotti farciti, banane glassate e churros. Ho già avuto il piacere di sperimentare la qualità e la pulizia dei food truck canadesi a Toronto, e qui a Montréal non resto deluso. All’apertura, sono il primo cliente.
Ogni camioncino è attrezzato con condimenti d’ogni tipo e, con una decina di euro — che posso pagare con carta di credito — ne esce un pranzo da re.

Vieux-Port de Montreal e Grande Roue — Canada
Vieux-Port de Montreal — Canada — Grande Roue

Soddisfatto, mi accingo a rientrare alla base, non prima di aver preso un altro caffè.
Trovo facilmente la fermata e, dopo qualche minuto d’attesa, sono sul pullman, combattendo contro il sonno che ormai non mi dà tregua, mentre mi ritrovo con la fronte involontariamente spalmata sul vetro alla mia destra.
Un’oretta dopo, sono di nuovo in aeroporto, stavolta pieno di vita.
Ritiro il backpack, lo consegno al banco per peso ed imbarco e, in un lampo, sono ai controlli in attesa del mio turno, munito di bagaglio a mano e passaporto.

«Metta anche il passaporto nella vaschetta», mi indica con tono severo l’addetto alla sicurezza.
«Preferirei portarlo, tanto non è in metallo», obietto.
«No, va nella vaschetta. Poi passi sotto il metal detector», rilancia lui.
Vorrei evitare di finire in una puntata di “Airport Security — Canada” e, tutto sommato, mi ricongiungerò con il mio documento tra una ventina di secondi.
Mio malgrado, accetto di non far di testa mia, una volta nella vita.
Niente ferraglia addosso, e in un istante sono all’estremità opposta del nastro che mi ha già riportato zainetto ed effetti personali, freschi di scansione ai raggi X.
Neanche il tempo di metter le mani in pasta ed il distinto signore anziano che mi precedeva in fila mi rivolge la parola.
«È suo questo?», brandendo il mio biglietto aereo.
«Sì, grazie…», mentre cerco di capire per quale motivo me lo stia porgendo.
«Era sul nastro», senza bisogno di chiedere, per poi andar via frettolosamente.
Era sul nastro?! Ma se era ben custodito nel passaporto, che avevo riposto nella vaschetta in plastica, come richiesto dal poliziotto…
Ringrazio il signore e scavo energicamente tra felpa, iPhone, occhiali da sole. Niente, il passaporto non c’è.
Controllo nello zaino, consapevole dell’inutilità di quest’ultimo passaggio, e mi rivolgo immediatamente al preposto, in piedi a due passi da me.
«Mi perdoni, ma non c’è più il mio passaporto».

«Controlli in tasca. È sempre in tasca, in queste situazioni».
Faccio prima ad obbedire che a rispondere.
«No, non c’è», ovviamente.
«Allora, è nello zaino. Il 99% dei passeggeri che perde qualcosa la ritrova in tasca o nello zaino».
Non ho motivo di dubitarne, ma spiego al signor ISTAT qui presente che ho appena effettuato questo controllo in autonomia.
«Lo svuoti, dev’essere lì», educato ma incalzante.
Armandomi di santa pazienza, e consapevole che il mio volo partirà tra tre ore — anzi, quattro, portando circa sessanta minuti di ritardo, quantomai benedetti — mantengo la calma e mostro il contenuto del mio zaino, fino ad arrivare agli auricolari e alle chewing-gum nel taschino anteriore.
Nel mentre, i controlli sono ancora in corso a pieno regime, e passeggeri d’ogni sorta transitano freneticamente alle mie spalle.
«È sicuro di aver portato il passaporto con sé? Potrebbe averlo perso prima del metal detector».
«Ne sono sicuro. Il suo collega mi ha chiesto di metterlo nella cassetta, nonostante non volessi farlo».
Il poliziotto è visibilmente perplesso e, per non saper né leggere, né scrivere, chiama il suo degno compare. Gli spiega rapidamente la situazione e, poi, riprende il suo posto originario.

«Svuoti lo zaino. Dev’essere lì. Ogni volta che un passeggero perde qualcosa, in realtà l’ha già rimessa a posto».
«Guardi, non serve. L’ho già svuotato due volte, anche davanti al suo collega. Non potrebbe essersi incastrato sotto il nastro, o magari dentro lo scanner a raggi X, piuttosto?», mantenendo la calma e mostrando un piglio molto costruttivo, tutto sommato.
«Svuoti lo zaino», ribatte in pieno stile disco preregistrato.
Felpa, fotocamera, spazzolino da denti, auricolari, Lonely Planet, portafogli e via dicendo. Tutto sul tavolino, per la terza volta.
«Non c’è…», sancisce lui, dopo una meticolosa osservazione.
«Mi perdoni — con calma olimpica, come se il documento non fosse il mio — ma non possiamo controllare sotto il nastro? La vaschetta ha dei bordi bassissimi, probabilmente sarà finito fuori».
«In questo momento non si può. Non ho l’autorizzazione per bloccarlo. Devo chiamare il mio superiore. Aspetti qui, per favore», e mi lascia a pascolare in purgatorio per una decina di interminabili minuti.
Nel mentre, controllo minuziosamente ogni vaschetta alla mia portata, senza alcun esito.

Arriva il superiore, un signore di mezza età baffuto, alto forse un metro e settanta e dai modi squisiti.
«Non si preoccupi, ora risolviamo tutto. Tutta l’area è monitorata con le videocamere di sorveglianza. Non sfugge nulla. Se qualcuno ha preso il suo passaporto, lo individueremo».
Sorrido ed annuisco con il capo, senza dir nulla. Quest’uomo trasuda fiducia da tutti i pori. È chiaramente il mio angelo custode, ed in lui ripongo grandi aspettative per l’immediato futuro — leggasi rientro a Roma.
Mi guarda in maniera infinitamente gentile e, con fare proattivo, si predispone a mettere in piedi il piano d’azione.
«Svuoti lo zaino, per favore».
Non sono arrabbiato. Sono deluso.
Mentre inizio a rivoltare lo zaino come un pedalino per l’ennesima volta — e forse, a questo punto, mi converrebbe evitare del tutto di ricomporlo, lasciando le mie cose sul tavolo a mo’ di mercatino dell’usato — l’angelo custode mi segnala che sono appena arrivate le immagini delle telecamere a circuito chiuso sul suo dispositivo portatile.
In un fotogramma, il passaporto esce dallo scanner a raggi X, seppur fuori dalla vaschetta; nel successivo, non ce n’è più traccia. Sparito. Volatilizzato.

Mr. Custode chiama il suo superiore, salutandomi e lasciandomi una massima per il futuro: «Mi raccomando, quando fa i controlli, tenga sempre con sé il documento».
Lo guardo incredulo e scelgo di mordermi la lingua. Le tre settimane trascorse a Cuba mi hanno reso una persona migliore, evidentemente.
«Non è di metallo, può portarlo in tasca e, se gli agenti le chiedono di metterlo nella vaschetta, gli risponda di no» e, raccolto il mio ringraziamento, se ne va, chiedendomi di aspettare il suo responsabile.

Paziento per un lasso di tempo indefinito — due minuti, o magari venti, neanche mi rendo conto, che sfrutto per avvisare la famiglia circa il mio futuro nebuloso ed incerto.
Ad interrompere l’attesa è una donna elegantissima, che mi saluta con un bel sorriso, chiedendomi di raccontarle esattamente cosa sia successo.
Colpo di scena: è italiana.
Punto bonus: non mi chiede di svuotare lo zaino — l’imbattibile senso pratico made in Italy — facendomi uscire da questo cortocircuito fatto di “svuota lo zaino, riempi lo zaino”, “metti la cera, togli la cera, Daniel san”.
Mentre le spiego l’accaduto, il nastro viene finalmente disattivato e, tempo zero, un addetto cerca di setacciarne ogni centimetro, alla ricerca del passaporto.
Sembra una figura mitologica, con il corpo da uomo e la testa da scanner.
Sento la vittoria in tasca.
«Non c’è», evidentemente mortificato.
«Non c’è?», chiedo io, esterrefatto.
E, poi, mi rivolgo alla responsabile, facendo una domanda di cui conosco già la risposta: «Avendo mostrato il passaporto al rientro in aeroporto, mi faranno ugualmente partire, vero?».
«Non preoccuparti — elude l’interrogativo con fare brillante — abbiamo tre ore, lo troveremo».
Ok, talvolta una non-risposta è efficace quanto una risposta.
Voglio morire, e tra due giorni avrò una riunione in ufficio.

Mentre inizio a fantasticare sulla mia nuova vita in Canada, fatta di food truck, sciroppo d’acero e sport invernali, vedo avvicinarsi il primo agente a cui ho segnalato il fattaccio.
In mano ha una sorta di libretto, con delle pagine ricurve, effetto bigodino.
È di fronte alla responsabile e a me.
«È questo?», porgendomi un passaporto italiano.
«Sì, è questo! — abbandonando istantaneamente la prospettiva di un’esistenza canadese — Dov’era, se posso chiedere?».
«Era rimasto schiacciato tra due vaschette».
Le stesse vaschette che avevo controllato una ad una di persona, certo.
Evito ulteriori domande e ringrazio la responsabile e gli addetti — non si può dire che non si siano fatti in quattro per aiutarmi, nonostante la défaillance iniziale.

Aeroporto Montréal — Alce hockey
Uno degli alci in tenuta da hockey onnipresenti nell’aeroporto di Montréal 🏒🇨🇦

Punto il corridoio che mi porta ai gate, vivendo con ritrovata leggerezza il tempo che mi separa dall’imbarco.
Spendo qualche ultimo dollaro canadese rimasto nel portafogli per un caffè caldo.
Scatto una foto con un alce antropomorfo a dimensione umana in tenuta da hockey e, finalmente, sono pronto a rientrare, chiudendo l’esperienza di un lungo scalo che non potrò dimenticare.
Passaporto alla mano, naturalmente.

Classificazione: 1 su 5.

Note per il viaggiatore:

  • la distanza tra l’aeroporto ed il centro città, se la strada è libera, si percorre in circa 40 minuti con il comodo pullman, in partenza fuori dal terminal degli arrivi.
    Il prezzo del biglietto, per singola tratta, è di 12 C$, poco meno di 8 €
  • grazie alla vicinanza tra tutti i punti d’interesse indicati, il percorso che ho realizzato si può portare avanti a piedi, senza affanno, in mezza giornata
  • l’entrata nella basilica di Notre-Dame, in qualità di visitatori, è concessa dalle 8:00 alle 16:30 dal lunedì al venerdì; dalle 8:00 alle 16:00 il sabato; dalle 12:30 alle 16:00 la domenica, infine.
    Il prezzo del biglietto è di 10 C$ (circa 6,50 €), che scendono a 5 C$ (circa 3,25 €) per visitatori dai 7 ai 17 anni d’età. Gratis per i bambini entro i 6 anni.
    Per aggiornamenti ed ulteriori info, riporto il sito ufficiale della basilica
  • come utili risorse, ecco il sito della città di Montréal e del Vieux-Port, ambedue disponibili in lingua inglese e francese
  • infine, il sito ufficiale del brillante artista montrealese Marc-André J. Fortier

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7 Comments on “Scalo lungo a Montréal. Cosa fare in città e cosa non fare in aeroporto”

  1. Mamma mia che ansia! Il fatto è che un episodio del genere sarebbe stato in grado di farmi dimenticare la bellezza della città e la bontà dello street food. Un paio di anni fa in Bulgaria mi era successa una cosa simile: l’addetto mi aveva “invitata” a mettere portafoglio e biglietto nel vassoio, separato da zaino, scarpe e orologio, e quando il vassoio è arrivato a fine corsa il tizio lo ha preso con dentro il mio passaporto e lo ha messo nel mucchio insieme agli altri. Ma per fortuna me ne sono accora subito. Comunque da quella volta passaporto sempre in tasca!

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    • Ciao Silvia! Grazie per esser passata di qui 😊
      Sì, diciamo che prendo qualche precauzione in più, da quella volta.
      Se mi costringono a lasciare il documento, anziché litigare, lo posiziono sotto qualcosa di pesante, di modo che rimanga coperto e schiacciato sul fondo della vaschetta. Finora, sta funzionando, dai!
      Il mucchietto dei passaporti stile-Bulgaria non l’ho ancora mai sperimentato, invece. Come funzionerebbe? Mettono tutti i passaporti in una vaschetta e ne peschi uno a caso dopo il metal detector, sperando che sia il tuo? 😂😂😂

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    • Grazie per aver fatto un salto qui 😊
      Sì, concordo. È la mia più grande passione e, purtroppo o per fortuna, crea assuefazione. Ogni viaggio di ritorno rappresenta il momento in cui si inizia a pianificare la prossima avventura 😂
      Ti rifarai senz’altro! Oggi è possibilissimo sfruttare al meglio anche due semplici giornate, magari raggiungendo una meta a breve o media distanza, e con un po’ di accortezza non si spende neanche una fortuna 😉💪🏽

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