Dormire in un capsule hotel. Perché sì e perché no
Il capsule hotel, un albergo particolare che genera sempre interesse, dubbi e curiosità. Una hit-parade dei pro, dei contro e dei luoghi comuni legati a questa scelta.
Un essere umano, durante la sua permanenza a Cuba, è composto per il 65% di ropa vieja. La rimanente parte del suo peso è rappresentata da un misto di organi e daiquiri al limone, ossa e mojito, muscoli ed aragosta.
La ropa vieja è un grande classico della gastronomia creola, una commistione di sapori provenienti dalla cucina europea e da quella africana.
Nell’ottica del recupero — o, più efficace, del non-si-butta-niente — l’ingrediente alla base è la carne di manzo di seconda scelta, scartata o avanzata da altre preparazioni, che viene sfilacciata e cucinata con aglio e cipolla, insaporita con cumino e alloro e spezie varie, colorata con pomodori e peperoni rossi e gialli.
Infine, la si serve con dell’arroz — il riso — e, spesso, con delle sfiziose fettine di platano fritto.
Cercare la ropa vieja mentre si è a spasso per strada, a L’Avana, non deve rappresentare una preoccupazione, né un chiodo fisso, né tantomeno un’attività a cui destinare tempo ed energie: sarà lei a trovare voi.
Si farà notare nei ristoranti tipici gestiti da privati e famiglie, i paladares, con tutto il suo sapore, ma senza fronzoli; si inserirà nei menù dei bistrot e dei locali più ricercati, adeguandosi ed assumendo una forma più elegante; ritornerà nelle bettole a due passi dal bagnasciuga, sbattuta con un mestolaccio in un piatto di plastica, permettendo ai commensali di tornare in acqua solo al calar del sole.
Stasera, magari, la incontrerò al Vedado.
È la mia prima visita qui, dal momento in cui sono arrivato a Cuba.
Preso dai colori della Habana Vieja, dalle sue meravigliose piazze storiche dove c’è vita ad ogni angolo e dall’odore di sigaro che pervade ogni ritrovo degli abitanti, ho trascurato la parte moderna della città, con il suo quartiere residenziale per eccellenza.
Prima ancora di passeggiare nella monumentale Necrópolis Cristóbal Colón, di immergermi nell’immensa quanto scarna Plaza de la Revolución e, magari, di ammirare la città dal suo edificio più alto, il Memorial a José Martí, voglio passar qui quel che rimane della giornata.
Il coco-taxi — la risposta cubana al tuk tuk thailandese — sfreccia lungo il Malecón, con il vento che riesce nell’impresa di scompigliare i miei corti capelli.
Osservo locali e turisti passeggiare in questo soleggiato ma mite pomeriggio di agosto, mentre in un attimo mi ritrovo al cospetto dell’albergo più famoso qui a L’Avana: l’Hotel Nacional de Cuba.
L’entrata, con la stupenda facciata in stile liberty, è un carosello infinito di auto d’epoca d’ogni colore che scaricano ospiti e visitatori per caricarne degli altri.
Oltrepasso l’affollato ingresso, e nel trambusto generale di concierge, facchini ed inservienti vari, faccio a malapena caso agli ambienti interni, illuminati dagli enormi lampadari in metallo e cristallo.
Tiro dritto verso il lato opposto dell’edificio e sono negli ampi giardini, che affacciano sul mare.
Prendo un mojito al bancone del bar e mi godo lo spettacolo — tre minuti, tempo limite entro il quale riesco a darmi pace stando fermo.
Lontani dalle panchine — prese d’assalto dai turisti che, alle sette e mezza di sera, si sentono più tranquilli a sfidare il sole d’agosto — vedo dei puntini blu muoversi tra il brillante verde del prato all’inglese. Sono i pavoni, che scorrazzano liberi nelle aree più remote di questi grandi giardini.
Vado a far loro compagnia, dandogli un po’ noia, forse.
Il karma si prende giusto una mezz’oretta, prima di presentarmi il conto.
Spinto dai morsi della fame, finisco per essere ostaggio dei procacciatori, mentre cerco un posto per cenare tra Calle 21 ed Avenida 23, superando via via gli incroci con Calle N, Calle M, Calle L e via discorrendo — la fantasia cubana ha evidentemente ceduto il passo al pragmatismo, quando si è trattato di assegnare dei nomi alle strade del Vedado.
Mi son fissato con un paladar conficcato chissà dove, segnalatomi da qualche abitante del posto come una gemma nascosta. Intuisco che si siano impegnati davvero molto a celarla, mentre il sole è tramontato ed inizia pian piano a calar la notte.
Nel mentre, passo davanti a qualche bel ristorante moderno con pareti a vetri. Procedo oltre, perseguitato dalla cantilena di un cubano alto e magro, con la pelle talmente scura che quasi stento a distinguerlo nell’oscurità generale, che da dieci minuti prova a convincermi a cenare nel locale per il quale lavora, naturalmente il migliore di tutto il paese.
L’avevo oltrepassato e seminato, allontanandomi con ottimismo dall’Hotel Nacional alla ricerca del paladar, ma le nostre strade si sono incrociate di nuovo, dopo che il fallimento mi ha riportato sui miei passi.
Il tanto decantato «no moleste, por favor» di qualsivoglia guida che si rispetti — basta pronunciarlo e sparisce ogni male, sulla carta — non ha alcuna efficacia, soprattutto se si è l’unico straniero nel raggio di duecento metri a non avere ancora il posteriore su una qualche sedia o sgabello che sia.
Accelero e semino il mio indesiderato compagno di viaggio, quando l’occhio mi cade su un edificio troppo brutto per non esser notato, adornato da una cartello tondeggiante che recita Café Laurent. Mi ispira.
«Mi dispiace, ma dal ristorante mi dicono che l’unico posto ancora libero è al bancone. Nessun tavolo disponibile», mi dice il grosso buttafuori mulatto all’entrata del palazzo, illuminato dalla sola fioca luce dei lampioni e della minuscola insegna del ristorante, sentendosi quasi in colpa.
«Non si preoccupi, il bancone andrà bene, non è un problema», lo tranquillizzo.
Non mi dispiace come soluzione. Avrò modo di buttar l’occhio durante la preparazione dei cocktail, e magari di far due chiacchiere.
«Ok, se davvero le va bene il bancone, allora può salire con l’ascensore fino al quinto piano».
È premuroso a sincerarsene una volta di più, ma questo eccesso di zelo lascia presagire una cena da incubo, temo. Oltretutto, l’edificio è poco illuminato e piuttosto fatiscente.
Non mi lascio suggestionare troppo. A Cuba spesso è così: facciate da brivido ed interni incantevoli, palazzi diroccati che sostengono rooftop da lasciar senza fiato.
Mai giudicare un libro dalla copertina, su quest’isola. Ringrazio e vado verso l’entrata.
«Il Café Laurent è un sofisticato ristorante un po’ incongruamente incastonato in un condominio di appartamenti anni ’50, palesemente brutto, nei pressi dell’Edificio Focsa»
Vedado — Cuba, Lonely Planet
«Buonasera, — mi accoglie brillante la cameriera — le hanno detto che è disponibile solo il bancone?».
«Sì sì, va benissimo», ricambiando il sorriso.
«Ok, allora mi segua».
Sono pronto al peggio, dopo l’ennesima domanda, ma non mi preoccupo più di tanto. Al più, avrò uno sgabello sgangherato ed un tavolino scomodo, nulla di grave.
Procedo sui passi della ragazza, passando nella sala principale, con le pareti di un colore tenue e tanti ritagli di vecchi giornali incorniciati ed appesi.
Noto un minuscolo bancone tondeggiante, metà del quale è occupato da bottiglie di rum, cannucce e fazzoletti di carta. Dietro — sostanzialmente incastrato — il barman.
Prego solo affinché mi sia simpatico, a questo punto.
La cameriera lo oltrepassa, ed io inizio a non capire. La stanza ormai è finita.
Si ferma e mi guarda: «Va bene qui?», indicando il davanzale interno della grande finestra.
Intuisco finalmente che, forse, mi parlavano del balcón — il balcone — e non del bancone. Meglio tardi che mai.
Di fronte a me, la luce crepuscolare dipinge il cielo di tonalità rosse, carta da zucchero, rosa. Riesco a scorgere addirittura il mare e, sotto di me, le strade e gli edifici del Vedado.
Sulla destra, a coprire la visuale, l’imponente Edificio Focsa, un enorme casermone di 121 metri che ospita uffici, negozi ed un ristorante all’ultimo piano.
«Scherzi?! Certo che va bene!».
Appollaiato a due passi dal vuoto, ordino la ropa vieja, che mi ha spinto fin qui.
Ottima. È cotta e saporita al punto giusto.
Compiaciuto, provo a contare i piani del Focsa — trentanove, indovinato — mentre continuo a chiedermi quanti anni di galera siano previsti nel caso in cui un bicchiere cadesse di sotto e colpisse un passante.
Soddisfatto, me ne torno verso il Nacional per sorseggiare un buon daiquiri al limone nel giardino ormai vuoto e silenzioso. Anche i pavoni sembrano essersi ritirati, mentre mi prendo quest’ultimo momento di pace prima del rientro a piedi lungo il Malecón, che un metro dopo l’altro mi riporta alla caotica e rumorosa realtà dell’Habana Vieja, un’altra città rispetto al Vedado.
Tutto sommato, a Cuba la ropa vieja ti troverà sempre. La cosa fondamentale è incontrarsi nel posto giusto.
Note per il viaggiatore:
Il capsule hotel, un albergo particolare che genera sempre interesse, dubbi e curiosità. Una hit-parade dei pro, dei contro e dei luoghi comuni legati a questa scelta.
Una corsa in coco-taxi sul Malecón, pronto per esplorare il Vedado e guardare L’Avana dall’alto.
Il racconto di mezza giornata dedicata al centro storico di Montréal, con un passaporto da ritrovare per poter tornare a casa.
Che meraviglia! Grazie per la condivisione!😊
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Una tra le migliori cene con vista della mia vita, sicuramente 😉
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Ammetto che anch’io ho trascurato la parte moderna dell’Havana attratta com’ero da L’Havana Vecchia! Comunque la luce che c’è nelle foto di Cuba è unica e speciale!
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Ti capisco perfettamente!
Oltretutto, la parte del Vedado più visitata è di sicuro quella adiacente a Plaza de la Revolución. I dintorni del Nacional non è che siano di gran rilevanza, a mio parere, e di certo catturano i sensi molto meno rispetto all’Habana Vieja e al Centro Habana 😉
Luce incredibile e colori pazzeschi, vero? Bisogna proprio impegnarsi per riuscire a fare delle foto brutte 😂😂😂
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Ma…quelle macchine…sono assolutamente da film!!!
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Pazzesche, davvero! E sono OVUNQUE, oltretutto. Ho un mare di foto, con auto d’epoca di tutti i colori. Stupende 😊
Piccolo spoiler (ne parlerò quando condividerò un nuovo pezzetto di Cuba, tra qualche settimana): talvolta, queste auto conservano solo la carrozzeria originaria, e all’interno sono solo dei vecchi cassoni degli anni Novanta o primi Duemila. Prendono un’auto più recente, le tolgono la scocca e la rivestono con quella di un’auto d’epoca.
A L’Avana capita meno, e naturalmente non con le decappottabili. L’effetto sarebbe atroce 😂
Invece, a Playa Larga, una cittadina decisamente meno turistica, mi è capitato di prendere un taxi condiviso. All’esterno, era un’auto nera tirata a lucido degli anni Cinquanta. Effetto “wow”, insomma.
Una volta entrato, mi sono ritrovato dentro una vecchia Suzuki 4×4 tutta di plastica 😂
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Cuba è nei miei piani da un po’, non ho ancora avuto modo di vederla, ma mi auguro davvero di farlo prestissimo mi intriga tanto,con i i suoi colori, la sua cultura e la sua storia.
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Hai ragione, sono d’accordissimo con te!
È un paese da visitare per tantissimi motivi, a mio parere, ed è uno di quei posti inconfondibili e davvero unici al mondo 😉
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Verissimo, davvero unico!
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Ci ho passato praticamente un mese al Vedado (avevo alloggio lì,ero all’Havana per studio) :-))
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Dai, che meraviglia! Ne conoscerai ogni angolo o quasi, quindi… 😉
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